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AI per la comunicazione di marca: esempi e scenari futuri

l'opinione di

Stefania Boleso

Mi affascina sempre vedere come la brand communication cerchi di sfruttare le diverse tecnologie che progressivamente si affacciano sul mercato.

Non sempre questo processo avviene in maniera facile e indolore, soprattutto quando chi si occupa di marketing è interessato ad utilizzare la tecnologia giusto per il gusto di farlo, di arrivare per primo, senza riflettere sul valore che può effettivamente portare al consumatore.

È successo con i QR code già una decina di anni fa, quando iniziavano ad apparire sul mercato italiano: per chi se li ricorda, ci fu un momento in cui moltissime aziende incorporavano nella loro comunicazione un codice QR. Peccato che una volta scansionato, non venisse utilizzato per accrescere l’esperienza dell’utilizzatore, ma molto più banalmente rimandava al sito web o al massimo alla pagina Facebook dell’organizzazione. Tanta fatica per nulla.

Fortunatamente qualcosa è cambiato con l’adozione dei QR code su larga scala nel periodo post Covid e ora sempre più spesso il cosiddetto “codice a barre a risposta rapida” serve per arricchire l’esperienza dell’utente, per raccontargli qualcosa in più di un prodotto o di un brand, una volta che si è riusciti a catturare la sua attenzione: può servire a farci scoprire lo spot TV a partire da una pubblicità su carta stampata, oppure gli ingredienti di quello specifico prodotto, o magari ci rimanda ad una landing page (una sezione dedicata del sito web) dove poter prenotare il nostro appuntamento in negozio.

Perché scrivo questo? Perché lo stesso schema si è ripetuto nel caso dell’adozione della Realtà Aumentata (ma anche Virtuale) in attività di comunicazione, e ritrovo lo stesso “entusiasmo della prima volta”, se così posso definirlo, anche oggi quando si parla di Intelligenza Artificiale (AI inglese).

Non mi addentro nella descrizione di tutto ciò che è già possibile realizzare con l’AI, tantomeno in ciò che ci consentirà di fare in futuro, perché non sono un’esperta.

Osservo però con interesse l’impatto che sta avendo nella comunicazione di marca: è di ormai quasi un anno fa il post di Mulino Bianco realizzato con Midjourney (algoritmo di intelligenza artificiale che crea immagini da descrizioni testuali) pubblicato sul profilo Instagram e sulla pagina Facebook del brand (ecco cosa scriveva a riguardo Alessio Garbin, Digital Strategy Director di Barilla, su LinkedIn).

A Mulino Bianco è seguita poi Beck’s, che per celebrare i suoi 150 anni ha realizzato Autonomous, “la birra che si è creata da sola”, un'edizione limitata sviluppata con l'aiuto di ChatGPT e Midjourney (scoprila sul sito dell’iniziativa). Secondo quanto dichiarato dall’azienda, tutto di Beck's Autonomous è stato creato dall’intelligenza artificiale, a partire dalla ricetta della nuova birra, al design del logo e del packaging, fino alla creazione della campagna di marketing.

Per non parlare poi delle creatività realizzate in CGI (Computer-Generated Imagery), cioè che fanno ricorso ad animazioni o a effetti speciali generati al computer, e che grazie all’AI vengono ulteriormente migliorate e ottimizzate per rendere il messaggio ancora più sorprendente, e di conseguenza memorabile.

Credo che molti di voi abbiano visto le borse giganti del brand di moda francese Jacquemus sfrecciare su rotelle per le strade di Parigi , oppure il piumino The North Face riscaldare il Big Ben o la Torre Eiffel , ma sono molte di più le aziende che già stanno utilizzando CGI nella loro comunicazione.

Lo fanno perché si tratta di messaggi che riescono a catturare l’attenzione grazie alla combinazione e all’integrazione perfetta tra elementi reali e ciò che è evidentemente falso. È questo contrasto a catturare l’attenzione del pubblico e a consentire di ottenere earned media, vale a dire visibilità gratuita per il brand grazie al passaparola spontaneo e alle condivisioni che avvengono online.

In un periodo in cui “attention is the new oil”, come ho già avuto modo di scrivere, in cui cioè tutti i brand competono per ottenere l’attenzione del pubblico, unica vera risorsa scarsa, capite che il CGI e l’effetto wow che riesce a generare sembrano essere la soluzione.

Ma è davvero così? Personalmente credo che siamo attratti da tutto ciò che nuovo, e ora è la volta di AI e GCI. Ma nel momento a cui ci saremo abituati a tutto questo, quando le campagne e le iniziative realizzate con l’Intelligenza Artificiale e le creatività con GCI diventeranno la norma, andremo nuovamente alla ricerca di ciò che è diverso: un’immagine disegnata a mano libera o un evento fisico, che sarà forse meno spettacolare rispetto a borse giganti che si aggirano per la città o treni della metropolitana che si mettono il mascara, ma sarà più emozionante perché sarà autentico. O meglio, IRL (In Real Life), per usare un’espressione diffusa.

In sintesi, per sopravvivere, la comunicazione con AI dovrà sapersi evolvere, esattamente come è successo con i QR Code: non bisogna dimenticare che l’obiettivo della comunicazione di marca è far conoscere il brand, per poi farlo scegliere. Ottenere un grande picco di attenzione, senza pensare ad altre attività e iniziative che accompagnino il cliente nel suo processo di acquisto, rischia di portare poco alla marca. E di conseguenza all’azienda.

Stefania Boleso - esperta di marketing e comunicazione, si occupa di consulenza e formazione per aziende. È inoltre professore a contratto presso l’Università Cattolica.