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Oltre il Pil. I risultati della ricerca del CReSV di un nuovo concetto di valore

Le difficoltà che il mondo sta incontrando nel riprendersi dalla gigantesca crisi finanziaria del 2008 – una crisi che ha bruciato 21,3 milioni di posti di lavoro, in base alle ultime stime dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) e dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – rendono urgente, per i governi dei singoli stati, l’adozione di politiche che stimolino la crescita della ricchezza e, al contempo, il benessere dei cittadini. E per le imprese l’implementazione di strategie che rimettano al centro la persona, che sostituiscano il paradigma della massimizzazione del profitto per l’azionista con quello della creazione di valore per tutti gli stakeholder, in un’ottica di maggiore longevità e sostenibilità delle aziende stesse.

A fronte di queste urgenze assume rilievo d’attualità il terzo studio condotto dal Centro ricerche su sostenibilità e valore (CReSV) dell’università Bocconi di Milano in collaborazione con la Fondazione Ernesto Illy e con Centromarca, dal titolo «Oltre il Pil: un nuovo concetto di valore. La sostenibilità dall’azienda al sistema paese», i cui risultati sono stati presentati il 10 maggio scorso in un convegno organizzato dall’ateneo insieme al Corriere della Sera.

Nuovi indicatori della ricchezza nazionale

«La nostra ricerca», ha detto Francesco Perrini, direttore del CReSV, «ha cercato d’individuare metodi più efficaci per misurare la ricchezza reale prodotta dagli stati e dalle imprese». Una ricchezza, però, intesa non in senso classico. Quella era già misurabile con la formula del Pil, data dalla somma dei consumi delle famiglie, delle spese dello stato, degli investimenti delle aziende e del saldo fra esportazioni e importazioni. Bensì una ricchezza che incorpora anche fattori che valutano il benessere umano.

Da tempo si dibatte sull’inadeguatezza del Pil nel rappresentare il livello di ricchezza di una nazionale. E questo per diversi motivi: il Pil non attribuisce valore alla salvaguardia dell’ambiente; considera solo gli scambi monetari non anche l’auto-produzione, il volontariato o il lavoro delle casalinghe; ignora i diritti umani e la libertà; non considera la distribuzione della ricchezza nella società; né la ricchezza prodotta dall’economia sommersa; né il valore del tempo libero; né i beni e servizi offerti dal settore pubblico.

Il CReSV Bocconi s’è dunque spostato dall’approccio prettamente economico del Pil verso una prospettiva sostenibile, basata sullo sviluppo umano e sociale, che non sempre è esprimibile solo in termini monetari. E ha preso in considerazione una decina d’indici proposti da diversi gruppi di studiosi negli ultimi decenni. Indici che ponderano anche il benessere economico, gli standard di vita: quelli di sviluppo umano (Human development index di Mahbub u Haq e Amartya Sen), adottato dall’Onu per misurare lo sviluppo economico e sociale dei paesi, del buon standard di vita (Better life index del benessere economico sostenibile (Index of Sustainable Economic Welfare di Daly e Cobb), del progresso reale (Genuine progress indicator di Daly, Cobb e Lawn), della competitività sostenibile globale (Global sustainable competitive index), della pace globale (Global peace index), della stima della ricchezza (Wealth estimates) della Banca Mondiale. E ancora due indici italiani: quello di sostenibilità della Fondazione Eni Enrico Mattei e quello del Barilla Center for Food & Nutrition. «Indici», ha constatato Perrini, «dai quali si può dedurre che il Pil include anche elementi che non creano valore reale per un paese o che addirittura lo erodono nel medio e lungo termine, in quanto possono causare danni ambientali, come il depauperamento delle risorse naturali».

I plus del valore allargato per le imprese

Come anticipato, il CReSV ha anche cercato d’individuare indicatori diversi dal mero profitto per misurare le performance delle imprese. «Nelle due precedenti ricerche condotte in collaborazione con la Fondazione Ernesto Illy e con Centromarca», ha ricordato Perrini, «avevamo assodato che non sussiste alcun vantaggio in termini di massimizzazione del profitto per gli azionisti delle imprese orientate al controllo dei costi rispetto a quelle orientate al valore, alla qualità e alla sostenibilità. E che queste ultime non soltanto creano maggior valore allargato per gli stakholder, ma sono di norma anche più longeve. Vivono più di 10 anni, cosa che nel 71% dei casi non riescono a fare le imprese orientate al controllo dei costi, perché col passare del tempo perdono competitività».

In questa terza ricerca il CReSV è dunque andato oltre e ha effettuato un’analisi empirica su 111 società europee di cui era disponibile un rating di sostenibilità, ossia un voto assegnato da un’apposita società di valutazione rispetto al loro impegno nella tutela dell’ambiente, degli aspetti sociali e di un’adeguata governance, rispettosa degli interessi di tutti i portatori di interesse. Ha quindi valutato la relazione tra il rating sostenibile di queste aziende con le loro performance economiche e, in particolare, il trend dei titoli azionari nel periodo 2005-11.

«È risultato», ha detto Perrini, «che esiste una diretta connessione positiva fra le variabili di responsabilità sociale d’impresa e i risultati economico-finanziari delle aziende analizzate. Investire nella variabile ambientale, nello specifico, dà alle aziende un importante beneficio economico, quantificabile fra il 17 e il 23%, a seconda dello scenario analizzato, dell’extra-rendimento del prezzo delle loro azioni. Non abbiamo invece ottenuto risultati statisticamente significativi nel momento in cui abbiamo cercato di valutare se alle aziende convenga economicamente essere socialmente responsabili rispetto alla variabile sociale e a quella della governance».

A cura di Luisa Contri